di J.A. Bayona – 2023

Disponibile su Netflix

Chi ci legge riterrà questa frase, forse, già ripetuta svariate volte, ma è un assioma (specie quando si parla di film tratti da storie vere) che bisogna sapere: il cinema è finzione, ma è una finzione che si occupa di farci interpretare meglio la realtà.

Certe volte però, specie di fronte a storie particolarmente drammatiche, viene da chiedersi se il cinema possa effettivamente venirci in aiuto per cercare una spiegazione o più semplicemente voglia approfittare di alcune storie per una mera questione di consumismo. 

Nel caso de “La Società Della Neve” di Bayona (uno a cui, mi pare, sembra piacciano proprio le storie sulle calamità), più e più volte mi sono chiesto se sia necessario certe volte lasciare che le storie siano soltanto memoriali di chi è sopravvissuto, e non necessariamente il loro ritratto (anche piuttosto preciso) sul grande schermo. 

Ma andiamo con ordine.

La Società della Neve è prima di tutto un gruppo di giovani, giovanissimi giocatori di Rugby dell’Uruguay, loro malgrado imprigionati in una sperduta conca innevata delle Ande. Il loro aereo è precipitato per un errore di calcolo dei piloti, e l’unico riparo a disposizione è la precaria fusoliera dell’aereo spezzata in due. 

Nemmeno a dirlo, manca qualsivoglia mezzo necessario per sopravvivere a quelle altitudini, e i più fragili muoiono nel giorno di poche ore. I più fortunati resisteranno qualche settimana, gli altri sopravvivranno invece per più di due mesi, tra bufere, mancanza di cibo, di acqua, di contatti con l’esterno. 

A livello tecnico il film è indiscutibile. Anzi, stupisce per certi versi che sia una produzione Netflix, visto l’altissimo livello (sappiamo che gli Oscar lasciano il tempo che trovano, ma per Bayona c’è in gioco il premio per la miglior Regia, che è tutto dire). 

Ho apprezzato molto la scelta di non abusare di volti noti per dare al film quel sentore più documentaristico, più vicino alla realtà. E inoltre tutti gli attori sono stati molto molto bravi, a riprova del fatto che non sempre in un grande film c’è bisogno di (nel senso di fama) grandi attori. In più (almeno è ciò che si evince dal backstage presente su Netflix), la storia sembra essere molto presente nella cultura dell’Uruguay, considerata l’emozione degli attori nello scoprire di essere stati scelti per il film. Questo probabilmente spiega l’impegno e il coinvolgimento emotivo della storia in sé.

Nondimeno la storia ha un suo fascino, e non si può dire che lo spettatore si annoierà facilmente. Forse la seconda parte del film perde un po’ di mordente, ma nel complesso l’opera vale finalmente il prezzo mensile di una piattaforma che, da qualche tempo, anche con produzioni massicce tendeva a propinarci storie sempre meno interessanti.

La questione, formalmente, che mi lascia interdetto a fine visione, è fondamentalmente etica, un po’ come quella dei ragazzi di fronte alla necessità di diventare un po’ più animali e un po’ meno esseri umani di fronte alla sopravvivenza.
Certe volte, come spettatori, non possiamo essere completamente passivi. Il grande schermo ci mostra un mondo che ci attrae per la sua malvagità, e noi cinicamente ne approfittiamo. È colpa del cinema o è colpa nostra, che come pubblico dovremmo problematizzare sempre ciò che troviamo di fronte a noi? 

Scoprire che i veri sopravvissuti hanno partecipato più o meno attivamente alla realizzazione del film ha, in parte, placato i miei dubbi. Tuttavia come spettatori abbiamo bisogno di andare oltre la comparsa dei titoli di coda. E non sono convinto che il pubblico di un certo mercato ne sia completamente capace.

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