di irossa

2024 – irossa records

Le irossa, più di tanti altri gruppi, sono figli del loro tempo. Sono figli della musica che ascoltano. 

Ovviamente hanno delocalizzato le loro influenze musicali dall’Italia alla più florida Inghilterra e vogliamo dare loro torto? Certo che no. Ricordo bene la prima volta che mi sedetti ad un tavolo a parlare con loro, ricordo la maglietta degli Shame di Jacopo e il loro parlare di gruppi come Fontaines D.C. e, questi non ricordo se li citarono effettivamente, Dry Cleaning. Tutti gruppi che negli ultimi anni hanno totalmente rotto con le varie etichette di genere musicale e se ne sono inventato uno tutto loro. Qualcosa di difficilmente etichettabile e che fuoriesce dai vari contenitori musicali che la critica di settore si diverte a riempire disco dopo disco. E le irossa seguono tutto questo filone. Non fanno rock o punk o jazz o che so io. Loro suonano, che sia su un palco, in una cameretta o in uno studio, loro suonano e basta. E lo fanno diventando delle matrioske. 

Mi spiego meglio. 

Ora, tutti sappiamo cosa sia una matrioska: un insieme di bambole cave di grandezza variabile e perfettamente inseribili l’una all’interno dell’altra. Parlando delle irossa dobbiamo prendere in esame la bambola più grande come forma canzone, intendiamola pure a livello strutturale e quindi assodando che ci siano più elementi riconoscibili all’interno del brano. Una volta che la canzone viene ascoltata, e quindi la bambola aperta dando luce a quella più piccola e quindi di fatto ad un’altra bambola, nasce una nuova canzone all’interno della prima canzone. E così via fino alla fine. Tante piccole canzoni, bambole, all’interno della stessa. Un’intro, una strofa, un ritornello, una jam, un’altra strofa che suona differente dalla prima, un altro ritornello e poi la conclusione. Tutto fatto in maniera sapiente, tutto fatto con cura, tutto fatto alla perfezione. 

(Per chi mastica di calcio o non ha capito la metafora delle bambole russe, potrei parlarvi della finale del mondiale ’22 tra Francia e Argentina che ha contenuto più partite all’interno della stessa: dominio Argentina, dominio Francia, equilibrio, dominio Argentina, poi di nuovo ancora Francia e la parata del Dibu e poi i rigori. Tutto lineare, no?)

Le irossa sono questo. Una forma di casino ed apparente improvvisazione, ma studiato e voluto. Come quando salgono su un palco e a momenti non ci stanno visto che sono sei. Però su quel palco, qualunque esso sia ed indifferentemente dal numero di persone che ci sono ad ascoltarli, si trasformano in una perfetta orchestra da conservatorio dando sfogo a tutto il loro estro, a tutto il loro amore per quel che fanno. 

Penso a una canzone come Mille Aghi, con quel cambio repentino tra un tempo e l’altro alla fine del pezzo. Un ritmo che si trasforma completamente. 

Ma un esempio totale è “Dove è lei”. Una frase che in questo disco si ripete più e più volte. Una canzone d’amore che ti lancia dall’atmosfera decadente e romantica di questa città spietata. Una città dove la notte è più bella del giorno, dove se ce la fai sai di potercela fare ovunque. 

“Dove è lei,
io non mi muovo,
e se mi prenderà
mi perderò”. 

Una frase che ogni volta che ascolto mi colpisce dritto al petto. Chi è lei? Non ne ho idea, è una persona, una musica, un sogno, una città, non importa. Prendersi e perdersi, in ogni caso, è una cosa che saprebbe fare soltanto un innamorato. Cosa c’è di più caotico in un concetto così ambivalente? 

E quindi benvenuti nel loro primo disco, Satura, un casino controllato. 

Lo aspettavamo da tanto questo esordio, era quasi diventato un meme, “il primo disco delle irossa”. E cosa possiamo dirne? Non sono un paraculo se dico che è un bel disco, non lo dico perché nel frattempo, da quella prima chiacchierata, sono diventati amici, lo dico con cognizione di causa. Satura è un disco completo che mette in chiaro le intenzioni, soprattutto musicali, del gruppo. A loro piace suonare così, con linee di basso molto forti e che dettano il tempo e con un sax impazzito che mette la cornice al quadro. Poi ci sono quelle due voci che si dividono il compito di raccontare quello che hanno da dire, quello che hanno scritto, quel che han dentro. Se da una parte c’è Jacopo con una voce, seppur maschile, molto dolce, dall’altra c’è Margherita (di cui abbiamo anche parlato del progetto solista Edera) che rapisce portandoci in un mondo totalmente altro. Due voci che si rincorrono perdendosi nella bellezza della musica, unica e vera protagonista di questo disco. Soprattutto, però, Satura, è un progetto totalmente indipendente iniziato, portato avanti e finito da un gruppo di ragazzi nel pieno dei loro vent’anni e di cui andranno fieri per sempre. Ho i brividi a scriverlo perché sono, anzi siamo, felicissimi per loro. Stanno realizzando il loro sogno, hanno fatto il primo passo verso un qualcosa che non possiamo predire ma che sappiamo sarà bello, bellissimo. Pensando a tutto ciò, alla musica, a quanto sia difficile viverci e a tutto il culo che ci si deve fare, insomma, pensando a questi sei ragazzi delle irossa, mi viene in mente ciò che Renoir, il pittore impressionista francese, disse sui comunardi di Parigi:”Erano folli, ma avevano in sé quella fiammella che non si estingue”. Sì, è proprio così.

Lascia un commento

Progetta un sito come questo con WordPress.com
Comincia ora