di Vampire Weekend

2024 – Columbia Records

Se Ruzza ha il “test del sonaglio” per capire se un orologio sia vero o falso, io ho il “test della macchina” per capire se un disco mi piaccia o meno. 

Tagliamo la testa al toro e, senza indugi, diciamo pure che Only God Was Above Us non ha passato questo fantomatico test e non mi è piaciuto. Anzi, non è che non mi sia piaciuto, il fatto è che non mi ha lasciato tutto quello che speravo avrebbe potuto lasciarmi. 

Ora, però, cerchiamo di fare un passo indietro provando a spiegare un po’ di cose. 

Dei Vampire Weekend sono grande fan da quando, su non ricordo più quale versione di PES (2011 o 2012), scoprii A-Punk, singolo del disco omonimo d’esordio datato 2008. Quello fu un disco immenso, enorme. Personalmente l’ho sempre considerato uno dei migliori esordi mai ascoltati, ma anche come la diretta evoluzione della musica dei R.E.M.: ho sempre visto un fantomatico fil rouge che parte dal college rock anni ‘80 e arriva alla “musica da cameretta” degli anni ‘00. So che molti, specie i cosiddetti puristi, storceranno il naso leggendo questa affermazione, ma poco mi importa. 

Vampire Weekend, l’album, lo comprai su iTunes e lo masterizzai su disco. Era fisso nel lettore cd della macchina. Poi passò su chiavetta usb e, se esistesse un wrap di fine anno come quello di Spotify per ciò che ascolto da quella chiavetta nella Ford di mio padre, l’esordio della band di Ezra Koenig, occuperebbe tutti i posti della classifica con un totale di non so quante ore. Ecco, il problema è che io mi sono fermato lì. Certo, ho ascoltato e adorato allo stesso modo qualcosa di Contra (2010) e di Modern Vampires of the City (2013) e mi son piaciuti perché suonavano come il primo, ma quando è arrivato Father of the Bride (2019) che ha sterzato verso un pop più aulico e, forse, troppo incentrato su una crescita ed evoluzione musicale verso l’elitario che altro, mi sono reso conto di una cosa: io non sono fan dei Vampire Weekend come gruppo, io sono fan di Vampire Weekend come album (ma fan per davvero, roba che se dovessi scegliere un disco da ascoltare da qui al giorno della mia morte sarebbe questo). 

E allora, considerato che il mio giudizio è per forza di cose viziato da un gusto personale, come posso parlare di Only God Was Above Us rimanendo oggettivo? Beh, non posso, ma lo faccio comunque partendo da una base, che è la stessa di cui prima: il suono. Sì, Koenig, con questo nuovo album, ha provato a tornare sui suoi passi promuovendo dieci tracce che provano a tornare ai tempi degli esordi. Si ritorna a casa, a New York, con quelle melodie un po’ allegre, un po’ malinconiche. Ezra Koenig, Chris Baio e Chris Tomson, nel loro inseguirsi ed inviarsi tracce per il continente o per il mondo, hanno cercato di tornare all’essenzialità Ciò non vuol dire che abbiano ridotto le orchestrazioni o gli elementi, ma significa che hanno trovato quella pace e quell’intimità che solo nella “cameretta” dell’esordio avevamo colto. 

Può sembrare noioso e pretestuoso, quindi, cercare riferimenti nelle nuove canzoni andando a sfogliare il catalogo della band, ma è proprio qui che sta il punto. Only God Was Above Us si concentra su quella che è l’eredità, sulla storia e sui tempi passati della band. Le canzoni, per forza di cose, vogliono suonare familiari. Gen-X Cops è il pezzo ska, diciamo così, che ci riporta brani come A-Punk, Cousins o Diane Young. Mary Boone ci ripropone le ambizioni corali di pezzi come Ya Hey e Prep-School Gangsters condivide qualcosa con Taxi Cab. Però, per quanto l’album ed il suo autore, provino ad abbracciare questo dannato passato, il disco parla anche di quanto sia difficile farlo per davvero. E’ chiaro che durante il corso degli anni ci sia stata un’evoluzione della scrittura di Koenig nei temi trattati nelle canzoni. Se agli esordi si cantava di giovinezza e di giovani uomini in mocassini che incontravano, riluttanti, la ricchezza, già con Contra ci si chiedeva a cosa servissero tutti quegli eccessi. Modern Vampires of the City è, invece, l’album più intimo della band che con quel disco ha voluto distaccarsi quasi totalmente dalla mera materialità cercando di andare a fondo di ogni emozione (I’m not excited, but should I be?/Is this the fate that half of the world has planned for me?/I know I love you, and you love the sea/But what holy water contains a little drop, little drop for me). E, dopo un po’ di tempo lontano da domande così pesanti e inebrianti, sono tornati improvvisando sulla Terra e sull’amore con Father of the Bride. E quindi, sì, nel 2024, con un tot di album e di canzoni sulle spalle, era giusto voltarsi e tirare qualche somma. La critica ha sempre un po’ discusso sul valore di questa band, anzi, più che sul valore, su tutti i commenti, i privilegi, l’appropriazione culturale e l’identità dietro i Vampire Weekend. Ora però è il gruppo stesso che si mette al centro del discorso parlando di tutto questo. Lo fa, però, alle proprie condizioni e quindi facendo musica e scrivendo di cosa succede quando, finalmente, hai ottenuto tutto quello che pensavi di volere (si è ancora vuoti?, si chiede Koenig). 

Il disco è questo, niente di più e niente di meno. Forse lo capirò e lo amerò tra qualche mese, o anno. O almeno è quello che spero. Tuttavia, c’è qualcosa di profondo che questo album mi ha insegnato: il passato è quello che è, carico di tutta la sua statura e la sua ricchezza, l’importante è conoscerlo cercando di scoprirne sempre qualcosa di nuovo, magari, come canta Koenig in Hope, lasciando andare via qualcosa.

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