di Turner Ross, Bill Ross IV – 2024

Disponibile su Mubi

Pavese diceva che gli americani hanno una propensione per la fuga. È un pensiero che a suo tempo circoscrisse solo al campo letterario, ma è interessante notare come un’intera corrente artistica, poi perdurata dagli anni ‘30 fino a metà degli anni ‘70 (più qualche sporadico caso letterario successivo), pose il tema del viaggio come fondamento imprescindibile. 

Si potrebbero scomodare gli autori più famosi come Kerouac e i più di nicchia come Brautigan, ma l’idea del viaggio come bisogno per ritrovare coscienza di sé è un assunto che ha accomunato alcuni tra i narratori più importanti della grande narrativa anglo-americana. 

Ritorniamo, per un momento, alla stagione in cui questi romanzi hanno ricevuto il maggior consenso. Sono gli anni del dopoguerra, del riformismo conservatore, della grande depressione, del maccartismo. È l’America della controcultura, delle contestazioni, dei moti e dei processi civili. 

Non possiamo elencare gli eventi cardine di quarant’anni di storia, ma basta sottolineare quanto siano stati anni di profonda spaccatura sociale e disordine, ma anche di grandi ambizioni etiche. 

Vien da sé allora che il bisogno di fuga, nel caso dei romanzi di quell’America, consisteva soprattutto in un bisogno di emancipazione da una cultura rigida come quella che aveva segnato prima e che segnerà gli anni che faranno da apripista alla contestazione sociale. 

Oggi, esiste ancora quel bisogno di fuga? Cosa spingerebbe un giovane della generazione Z a fuggire dal proprio sobborgo per attraversare l’America più rurale e raggiungere un luogo a loro sconosciuto?

Se lo devono essere chiesti Turner Ross e Bill Ross, che con il loro Gasoline Rainbow cercano, come altri autori prima di loro, di destrutturare quel bisogno di fuga. 

La sinossi è delle più semplici: cinque amici stanno finendo le high school in Oregon. Al timore di veder concludere un ciclo così importante, decidono di prendere un van e partire alla volta della Pacific Coast. 

Tutto il film è una panoramica su quell’America desolata, lontana dalle metropoli e dal loro immaginario cosmopolita. I campi sconfinati, le riserve naturali ancora miracolosamente non compromesse dallo sfrenato bisogno umano di sfruttare ogni centimetro del mondo in cui vive. Da questo punto di vista, è restituita l’ambizione di vedere la fotografia di un mondo che, pur avendo già avuto spesso l’opportunità di essere ritratto, è ancora una volta capace di stupire.

A questo vi è poi più volte il tentativo di restituire anche il manifesto di una generazione apparentemente perduta, che intossicata dalla tecnologia sembra avere un rinnovato bisogno di fuga, non poi troppo dissimile dallo stesso di chi li ha anteceduti nel Novecento. 

Questa ambizione, però, fallisce fragorosamente in partenza. I giovani ritratti sembrano più annoiati che interessanti, dicono cose che tentano vagamente di essere dialoghi sui massimi sistemi che sono goffi anche quando parlando di tragedie. 

Così le quasi due ore di film diventano quasi soporifere, tra dialoghi privi di interesse e un affresco stereotipato di questa gioventù che vorrebbe dire qualcosa di interessante, ma che fatica a esprimersi. 

Film del genere rischiano di far passare l’idea che questi ragazzi non abbiano nulla da dire, che siano schiavi delle mode, che si sforzino di pensare qualcosa di intelligente. Non capisco, però, se sia la colpa di una corrente di autori incapace di intercettarli o di coloro che si ostinano ad ostracizzarli, obbligando altri a improvvisare un loro ritratto che sia più dignitoso. Un dibattito aperto con la visione di How To Have Sex che ancora una volta porta a chiedersi come mai sia così difficile e poco interessante raccontare questa generazione.

A questo punto, non sarebbe forse il caso di lasciare che siano loro stessi ad esprimersi, piuttosto che prendersi la responsabilità di farlo per loro?

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