di Margherita Vicario – 2024

Articolo di Marco Nassisi

Presentato in concorso alla 74° edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, Gloria! è l’esordio alla regia di Margherita Vicario.

Classe ’88, la Vicario è prima di tutto cantautrice, ma non è assolutamente nuova al mondo del cinema. Infatti ha all’attivo anche una carriera d’attrice. In più è figlia (e nipote) d’arte: suo nonno, Marco Vicario, è stato attore e regista; sua nonna, Rossana Potestà, attrice attiva negli anni ’50 e ’60; suo padre e suo zio entrambi registi, principalmente televisivi (quest’ultimo, per dirvi, ha diretto per ben nove volte il Festival di Sanremo, compresi gli ultimi cinque targati Amadeus). Infine, il suo compagno è il regista Francesco Coppola, che ha diretto il videoclip di Aria!, singolo ufficiale del film.

A cosa serviva fare l’albero genealogico della famiglia Vicario? A mostrare come Margherita sia un’artista cresciuta nel cinema, e che si nutre di cinema. La sua scelta di dirigere un film senza la pretesa di stare anche davanti alla macchina da presa (come invece hanno deciso di fare molti attori alle prese con la loro opera prima, e come la Vicario avrebbe tranquillamente potuto fare), per concentrarsi sulla visione d’insieme del progetto, denota un certo rispetto del mezzo filmico.

Siamo nel 1800, il piccolo istituto musicale Sant’Ignazio si prepara ad accogliere papa Pio VII con un concerto tenuto dalle orfane, che vivono lì, studiano il proprio strumento e formano un’orchestra vigilata da un maestro autoritario. Teresina (Galatea Bellugi), domestica “muta”, sembra avere un talento nascosto per la musica, in particolare per il pianoforte. Sembra che senta qualcosa che la sua epoca ancora non comprende. Chiude gli occhi e immagina nuovi suoni, nuove melodie: immagina il futuro, e lo immagina migliore. Forse sarà in questo nuovo modo di concepire la musica che troverà, insieme alle altre ragazze, uno strumento di emancipazione; di libertà. 

Ecco, raccontata così, Gloria! sembra una storia più che interessante. E incuriosisce specialmente per l’idea di musica espressa da una regista che prima di tutto è musicista, e che quindi potrebbe essere in grado di presentare una visione abbastanza originale – quantomeno in Italia – di tale forma d’arte con l’ausilio del mezzo filmico. Guardando questo esordio certamente audace, però,  ci si accorge di una serie di problemi, i quali fanno capire che, alla fine della fiera, ci troviamo di  fronte all’ennesimo tentativo simil-“C’è ancora domani” di presentare una storia ambientata in un’epoca passata – possibilmente stronza e bigotta fino al midollo – in cui i personaggi negativi  sono colmi di tutti gli stereotipi degli stronzi e bigotti dell’epoca, mentre quelli positivi sembrano  provenire direttamente dal 2024, con lo stesso cervello e la stessa mentalità di chi, nel  Ventunesimo secolo, per fortuna, ha aperto la propria mente, evolvendosi e rendendosi conto che  non ha assolutamente senso il concetto “uomo-superiore-alla-donna-dunque-legittimato-a scegliere-tutto-della-sua-vita-per-lei”. 

Fa strano, ma mi trovo costretto a specificare quest’ultimo punto, perché purtroppo viviamo in un’epoca in cui criticare negativamente un prodotto avente come scopo quello di mostrare donne  che crescono e lottano per la propria affermazione nella società (banalizzando al massimo, “film  femministi”) equivale all’essere contro l’emancipazione di queste ultime e per questo essere uno  sporco maschilista. 

Personalmente non sarò mai sazio di film che esprimono l’importanza dell’emancipazione, in questo caso femminile. Come non sarò mai stanco di film che criticano in maniera intelligente il patriarcato (il quale è stato, ed è, un danno per donne e uomini). Tuttavia ci tengo a specificare che un film non vive solo del messaggio che intende lanciare; non vive solo del “cosa” vuole dire, ma anche – e soprattutto – del “come” lo vuole dire. E questo, Gloria!, a parere del sottoscritto, non riesce nella sua impresa.

Sia chiaro, Gloria! non è uno di quei film femministi in cui gli uomini sono tutti malvagi e le donne tutte brave e sante. La Vicario non intende alimentare lo scontro uomini vs donne. Uno dei personaggi più riusciti, infatti, è quello di Romeo, interpretato da Elio (sì, il mitico Elio di Elio e le Storie Tese, qui in una piccola parte).  

Come detto prima, siamo nel 1800. In un istituto decadente e sperduto. Aggiungo che siamo nelle campagne venete (vicino a Venezia). La Chiesa gioca un ruolo fondamentale. La sua potenza dovrebbe intimorire. Ma in questo film, tutto è tranne che temibile. Siamo lontani dall’idea che Marco Bellocchio, col suo Rapito (2023), ha dato dell’istituzione ecclesiastica, mostrando la sua malvagità attraverso la scrittura di un papa cattivo e pauroso perché incredibilmente potente. In questo film non c’è nulla di tutto ciò, e non temi nessuno. Mai.

Ci sono antagonisti che, secondo le logiche del film, dovrebbero essere le persone più antipatiche del mondo. Ma un personaggio come il maestro Perlina, interpretato dalla leggenda comica Paolo Rossi, come fai a odiarlo? Sarà perché è Paolo Rossi, e quella maschera non gliela levi facilmente. Ma è proprio il suo personaggio a non spingere particolarmente sull’acceleratore della stronzaggine. Fa quasi tenerezza e impedisce allo spettatore di odiarlo fino in fondo, nonostante le deplorevoli azioni che ha compiuto. Tali azioni nel film verranno a galla, e a un certo punto lo renderanno vulnerabile ai ricatti delle protagoniste. Ma la situazione risulta poco credibile, dato che ci troviamo in un’epoca in cui, purtroppo, delle deplorevoli azioni compiute da un uomo di un certo rilievo non gliene frega a nessuno, tantomeno se a denunciare è una donna di basso rango sociale. E questo è un grave errore che fa la Vicario, armata di ingenuità: trasformare le sue protagoniste da vittime a libere anche sul piano “giuridico”… Delle orfane… Nel 1800… Idea rispettabile, ma poco credibile. In merito a questa scelta stilistica, la regista (che è anche sceneggiatrice, insieme ad Anita Rivaroli, ha affermato la sua intenzione di fare un film in costume, ambientato nel passato, ma contemporaneo (impresa difficilissima), perché alla fine, secondo lei, non è cambiato molto dall’Ottocento ad adesso. Affermazione che, vista la messa in scena estremamente classica, risulta un po’ semplicistica. Nel cinema, giocare con la storia non è reato, ma allora bisogna osare di più.

La scrittura ha delle pecche, che sono importanti se si pensa alle intenzioni iniziali dell’autrice: alcuni dialoghi risultano troppo “didascalici”, banali e senza mordente. Un po’ di tensione drammaturgica è presente giusto in una manciata di scene, ma il merito è essenzialmente di alcune interpretazioni. Per esempio, un personaggio come quello di Lucia (Carlotta Gamba) spicca perché dotato di quella complessità che riesce a tenere lo spettatore interessato alla sua evoluzione. La sceneggiatura però, in generale, è estremamente sbilanciata, come è sbilanciato il personaggio di Bettina, interpretato da Veronica Lucchesi (cantante de La Rappresentante di Lista), che nel momento in cui, con una voce a dir poco splendida, intona il primo degli esempi di canto “ucronico” pensato da Teresina, non crea stupore, ma uno strano senso di inadeguatezza. Quella melodia moderna, lontana dal piattume musicale dell’epoca, è un intento artistico dichiarato molto interessante – sia chiaro –, ma arriva in un momento della narrazione che spiazza lo spettatore, invece di afferrarlo e portarlo alla sospensione dell’incredulità. 

Parliamo un po’ del ritmo. Con Gloria! non stiamo parlando di un musical, ma di un film in cui la musica è il motore trainante. Non voglio dire che si debba pretendere, ma almeno ci si immagina di trovarsi di fronte a un film frizzante, dinamico, capace di prenderti per mano e accompagnarti almeno nei momenti in cui la musica è protagonista. Questo avviene solo all’inizio, quando Teresina immagina per la prima volta i suoni della routine dell’istituto che prendono vita, e che creano un ritmo affascinante. Una scena che (seppur derivativa) di certo non si dimentica facilmente. Ma in generale si ha a che fare con un film noioso, dai ritmi, in certi momenti, eccessivamente dilatati. 

Rai Cinema + Tellfilm + Tempesta (quest’ultima casa di produzione di molti film di Alice Rohrwacher, come Lazzaro Felice, del 2018, di cui Gloria! è debitore) permette alla regista di circondarsi di professionisti in grado di donare al film un’estetica di ottima fattura. Ma la regia della Vicario è abbastanza elementare. Troppi scavalcamenti di campo, così palesi da distrarre e dare fastidio. 

Purtroppo è nel finale che si riversano i principali problemi logici del film. È letteralmente la scena ambientata nella chiesa di Triple Rock in The Blues Brothers, in cui James Brown scatena il delirio post-omelia e Jack vede la luce e fa le acrobazie. Ma quello era l’incipit di un film dichiaratamente surreale, esagerato e fuori dagli schemi. In Gloria! questo finale cozza con il tono portato avanti più o meno consapevolmente dalla Vicario.  

Ma c’è poco da dire, il vero problema non è il film in sé, quanto l’hype eccessivo e l’esagerato elogio da parte della critica specializzata che, semplicemente per il tema trattato, il più delle volte si sente quasi obbligata a innalzare, in questo caso, un film normale, che non aveva bisogno di essere un capolavoro, ma che per questo non doveva nemmeno obbligarci a considerarlo tale, ripeto, solo perché dal tema sensibile. Il coraggio, l’originalità dell’approccio alla narrazione e le buone interpretazioni non mascherano i profondi buchi di sceneggiatura. 

Perché scrivere una recensione in cui si evidenziano principalmente gli aspetti negativi di un film?  Semplice. In giro per il web troverete decine di articoli lusinghieri, e sarà possibile anche imbattersi in analisi molto interessanti sui punti di forza (che tuttavia non sono  stati tralasciati neanche in questa recensione) di un film che di certo non n’è privo. E l’intento del sottoscritto non è quello di fare il bastian contrario della situazione, ma semplicemente di esprimere un’opinione. Conclusione molto banale, lo so. La stessa banalità a cui il cinema italiano e la critica di esso ci stanno abituando sempre di più.

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