di Luca Guadagnino – 2024

Disponibile al cinema

Se ti ritieni una persona profonda, spirituale, ma perché no, persino intellettuale, è difficile restare indifferenti di fronte ad uno sport come il tennis.
Chi vuole salire sul carro dei vincitori, come capitato a molti di recente, si limita alla finalona del mese per sentirsi parte di qualcosa, per poi svanire quando cambia l’hashtag nelle tendenze.
Ma c’è una poesia in quel reticolo, in quei sospiri, in quei gemiti di fatica, in quella tensione che sale sempre di più quando gli scambi aumentano e i movimenti del corpo diventano sempre più irrazionali.

A descriverlo così, in questi termini, sembra quasi di parlare più di sesso che di sport. Le metafore si sprecano: gli sguardi tra i giocatori, i gesti ostinati, l’attimo che si dilata tra il rimbalzo della palla e il servizio che poi dà il via alla magia. Gli scambi continui, la sospensione che si trasforma in crisi esistenziale quando una smorzata non supera la rete e rimane a sobbalzare nella propria metà campo, e ti riporta dal nirvana ad essere schiacciato rovinosamente a terra.
Non è solo sport, è qualcosa di ben più alto, perverso, sublime. È la letteratura di Bukowski, è la tensione dei personaggi di Rohmer, è il ritmo sempre più incessante di Midnight Rambler dei Rolling Stones. 

Poteva, uno come Guadagnino, che ha sempre tentato di approfondire il lato più poetico e perverso dell’attrazione umana, non lasciarsi conquistare dall’erotismo così lampante di questo sport? Come già detto, difficile restarne indifferenti.

L’eros, però, non è solo pornografia gratuita. È desiderio, amore e psiche, mente e corpo. Malizia ma passione. È ciò che alimenta il sangue degli atleti, e che ne sviluppa il carattere: del resto, non deve essere un caso se i giochi olimpici sono nati in Grecia.

Di conseguenza, è anche tutto ciò che smuove i tre protagonisti di Challengers per tutta la loro esistenza: tre esseri umani soli che trovano forza soltanto in virtù dell’esistenza altrui. 

Sono Art, Patrick e Tashi. Tre promesse del tennis, belli come solo i giovani sanno essere, affascinanti come solo le promesse dello sport sanno diventare. Art e Patrick, coppia vincente di un doppio US Open da Juniores, Tashi che sul campo passa 15 secondi a giocare e tutto il resto del tempo a provare piacere. 

Tre giovani, giovanissimi, impreparati nella vita, nei sentimenti, che flirtano tra di loro solo nell’unico modo che conoscono: giocando. Tashi che in una camera d’albergo si lascia lusingare, sfiorare, baciare, che inizia a fissare i fili sui loro arti per cominciare a manovrarli. E che si innamora prima del carattere di Patrick, del suo tennis sporco e frenetico, poi del talento di Art, del suo gioco pulito e mai fuori dalle righe. 

Ma si sa, Tashi non può credere di tenere il Servizio per il resto della partita, così al loro turno i ragazzi proveranno il loro gioco. Tra Art, impacciato e acerbo, che gioca sulla mente di entrambi per far credere loro che le rispettive emozioni siano solo di circostanza, e Patrick che giocoforza deve puntare tutto sul suo carisma sfacciato. Il tutto in un match che dura per tredici lunghissimi anni, separati tra loro attraverso flashback costanti e tre set più un tie break, come spesso accade nelle sfide alla pari. 

Tredici anni dove Tashi conclude rovinosamente la sua carriera per un infortunio, e che per continuare a vivere nel sogno crede che l’unico modo sia allenare Art e renderlo un vincente, il più vincente, l’unico. Un matrimonio di circostanza, ma davvero passionale, che conviene ad entrambi ma che entrambi sembra logorare. Lui è sempre al centro, lei è un burattinaio ma fatica a restare dietro il successo del marito, consapevole del fatto che sia tutto merito suo (quella S aggiunta convintamente sulla bozza dello sponsor sottolinea ulteriormente questa convinzione). 

Art che diventa una scelta di circostanza, se non di convenienza. Il preferito, di buona famiglia, ligio al dovere, troppo previdente in un gioco dove a volte conta anche sorprendere. Mentre Patrick macina punti ATP ma resta sempre nell’ombra. Il suo è un gioco meno incisivo, più violento, rude, la racchetta per lui è un’estensione del suo organo genitale, ma per quanto risulti volgare, la carne resta carne, e Tashi non può negarlo a se stessa, è ciò di cui si è innamorata.

Al centro, la finale Challenger di un club sportivo dimenticato nei sobborghi di New York, tredici anni più tardi, con di nuovo il gioco alla pari di tutti e tre e un torneo che per nessuno conta davvero e per loro significa il senso che ha perpetuato tutta la loro esistenza.
In palio c’è tutto: il successo di Tashi, l’ultima speranza di Art per uno Slam, la sopravvivenza economica per Patrick. A tutti serve vincere e nessuno può davvero accettare di essere sconfitto. 

Guadagnino gira un film sui sentimenti adottando come mezzo il suo sguardo sullo sport più sentimentale di tutti. Un amore che sul campo dal gioco rimbalza costantemente, è nevrotico, nervoso, uno sfogo. È un sentimento impaziente, struggente e autodistruttivo. E non smette mai di esserlo, grazie ad una regia che non molla mai la presa, continua a tendere il filo, la rete, il gioco anche quando i protagonisti non sono dentro quel campo che li rende così vivi. 

Perchè Guadagnino sa meglio di loro che non smettono mai di giocare. Pavese diceva che uomini e donne “si suonano”. Luca è stato metaforico quanto lui: tra loro, giocano.

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